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La violenza di genere tra giornali e tribunali

Due donne di spalle, una con capelli biondi lunghi e l altra con capelli corti mori guardano alla finestra. La donna bionda ha la testa appoggiata alla spalla della signora acconto a lei.

Come sottolineato anche dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), il fenomeno della violenza contro le donne ha radici culturali basate su rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, ha carattere strutturale, in quanto basata sul genere, e rappresenta uno dei meccanismi sociali attraverso cui le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini. La natura del fenomeno, quindi, è fortemente determinata da stereotipi, pregiudizi, discriminazioni di genere. Questo si evince anche dalla narrazione della violenza sulle donne, che è ancora pervasa da stereotipi ricorrenti sulla stampa italiana così come anche nel linguaggio delle sentenze dei tribunali.

Una ricerca dell’Università degli Studi della Tuscia, in partnership con l’Associazione Differenza Donna ONG e con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità, nell’ambito del progetto “STEP-Stereotipo e pregiudizio. Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nel discorso dei media” hanno analizzato la rappresentazione sociale della violenza di genere proprio attraverso lo studio di articoli e sentenze.

La violenza di genere sui giornali

La ricerca ha analizzato un totale di 16.715 articoli nell’arco temporale di 3 anni, dal 2017 al 2019. I reati presi in considerazione sono stati la violenza domestica, la violenza sessuale, l’omicidio/femminicidio, la tratta e la riduzione in schiavitù di esseri umani e lo stalking. 

Ecco le principali evidenze:

  • La sovra-rappresentazione di fenomeni minoritari di violenza rispetto a quanto corrisponde effettivamente nella realtà. 
    Il reato più frequente registrato dalle procure è dato dai maltrattamenti familiari (51,1%), il secondo dallo stalking (30,7%), il terzo dalla violenza sessuale (17,1%), il quarto dal femminicidio (0,7%) mentre, all’ultimo posto troviamo la tratta/riduzione in schiavitù (0,4%). Tra i casi di violenza riportati dalla stampa ci viene restituito un quadro in cui il reato più diffuso e problematico è lo stalking con ben il 53,4% degli articoli, seguito dai casi di omicidio/femminicidio (44,5%). Solo al terzo posto, con il 14%, troviamo casi di violenza domestica che invece rappresentano la larga maggioranza dei reati contro le donne. Proprio la violenza domestica può generare un altro drammatico fenomeno, quello della violenza assistita da parte dei minori che vivono all'interno del nucleo famigliare. (Per approfondire la conoscenza di questo fenomeno leggi l'articolo "Cos'è la violenza assistita e quali le conseguenze sui bambini".)
  • Uomo e donna: uno squilibrio nella rappresentazione del colpevole
    Se raggruppiamo in un cloud le parole che emergono dagli articoli di giornale analizzati, l’uomo – insieme ai suoi reati – quasi scompare. La narrazione è incentrata sulla vittima, la donna, e riporta spesso su di lei un linguaggio colpevolizzante. Il fenomeno è definito "victim blaming" e consiste nel ritenere la vittima responsabile di quanto le è accaduto, sia in maniera diretta (es. come era vestita, cosa aveva fatto per farlo arrabbiare) che in maniera indiretta (es. analizzando stili di vita e comportamento della donna).
  • La soggettività negata alle donne.
    Le donne non sono quasi mai protagoniste ma diventano oggetto passivo del racconto. Spesso vengono chiamate solo per nome, come a sottolineare uno status di carattere filiale e di mancata indipendenza (ad es. "Parolisi uccise per un no di Melania").
  • Il bias sulla violenza maschile.
    Se le parole sono importanti perché classificano la realtà, l’uso di termini come “raptus”, “lite famigliare” o “dramma della gelosia” non possono in alcun modo descrivere il fenomeno della violenza sulle donne. Eppure continuano ad essere utilizzate indiscriminatamente da tutti i tipi di testate, negando in tal modo il carattere ricorsivo della violenza contro le donne, che lungi dall’essere un episodio di perdita di controllo, si manifesta piuttosto come un esercizio continuo di prevaricazione.

La violenza di genere nei tribunali

Per analizzare il linguaggio relativo alla violenze sulle donne nei tribunali è stato analizzato un totale di 283 sentenze, su un arco temporale che va dal 2010 al 2020.

L’analisi è stata incentrata su alcuni focus principali, ecco quali:

  • La testimonianza della vittima.
    Per conferire maggiore solidità alle testimonianze delle donne vittime di violenza vengono spesso utilizzati dei «marker di credibilità» (ad esempio emotività, fragilità, pudore ecc…) che da una parte valorizzano la testimonianza della vittima, dall’altra riproducono una rappresentazione stereotipata della donna e delle relazioni di genere.
  • Il frame della litigiosità.
    La relazione violenta viene descritta all’interno del frame della “coppia litigiosa”, anche dai giudici e dalle forze dell’ordine. Questo tende a spostare il focus da quello che è il vero problema: la violenza domestica. Come accade anche in gran parte del linguaggio della stampa, anche nei tribunali si tende a parlare di liti famigliari anziché di violenza domestica. Questo rischia di sottintendere una dimensione di reciprocità in cui entrambi i membri della coppia giocano un ruolo attivo all’interno della dinamica. Tuttavia, mentre nel conflitto, per quanto aspro, esiste una parità di potere relazionale tra i due soggetti coinvolti, nelle situazioni di violenza uno dei due agisce violenza sull’altro, l’obiettivo è la dominazione.
  • L’impeto d’ira.
    Se il termine “raptus” non ricorre quasi mai nelle sentenze, resta il frame narrativo dell’impulso quasi incontrollabile che spinge l’uomo alla violenza (“impeto d’ira”, “scatti d’ira” ecc…). Anche in questo caso, quindi, si nega il carattere strutturale e ricorsivo della violenza.
  • La gelosia.
    Il frame della gelosia è radicato nella società ed è spesso questa a introdurlo nell’aula del tribunale. La gelosia intesa come forma di amore, è ancora uno degli stereotipi più diffusi e radicati nella società. Tuttavia, nelle situazioni di violenza quello che si manifesta è un esercizio di potere e di controllo su quella che è considerata dal maltrattante, a tutti gli effetti, una proprietà: la donna perde il diritto alla propria individualità, non è più soggetto nella relazione, ma diventa oggetto di possesso. Anche in questo caso il giudizio non sempre riesce a sottrarsi dal riprodurre e legittimare questo bias sociale.
  • Assenza della Convenzione di Instanbul.
    Tranne alcune eccezioni tra i casi analizzati, manca il riferimento alle due principali fonti per il contrasto alla violenza di genere: la Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (CEDAW), e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul).
     

La rappresentazione sociale della violenza

In base a quanto emerge dalle analisi di questa ricerca, in generale la rappresentazione sociale della violenza tende ad attenuare o omettere le responsabilità degli uomini protagonisti di episodi e reati di violenza. Gli stereotipi e i pregiudizi, quando si radicano nei testi delle sentenze o sulle pagine dei giornali, contribuiscono a perpetuare una rappresentazione sociale della violenza che mistifica il fenomeno riducendo le responsabilità degli aggressori. 

La raccomandazione è quindi quella di spogliare dalla retorica i testi che si occupano di violenza di genere e attenersi ai fatti oggettivi, solo in questo modo si eviterà il rischio di distorsione che il pregiudizio comporta e si vedrà rafforzata la capacità di giustizia del paese.

Per approfondire:

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