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Le storie dei migranti portate dal mare

Giovanna in frontiera sud

Ci sono immagini che non possiamo dimenticare, che ci hanno scosso, che avremmo voluto non vedere. Tra queste l’immagine del piccolo Aylan, divenuto, dopo la sua tragica morte sulle coste della Turchia il 2 settembre di 3 anni fa, il simbolo della crisi dei migranti nel Mediterraneo. 

Purtroppo Aylan non è l’unico ad aver perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Nei primi sette mesi del 2018 sono 1.500 le persone che vi hanno perso la vita. 

C’è chi ce l’ha fatta. Che ha attraversato il deserto, che è stato arrestato, che ha subito violenze e privazioni, ma che alla fine è riuscito a salvarsi. Queste persone però portano con sé dei ricordi che vorrebbero dimenticare, che vorrebbero lasciarsi alle spalle per poter ricominciare.

Questi ricordi sono racchiusi nelle loro storie, nelle loro testimonianze che Giovanna, una nostra collega che lavora in Sicilia ha raccolto nei suoi 4 anni di lavoro sempre al fianco di chi ha bisogno, sempre pronta a dare voce a chi di voce con il mondo non ha.

“Come spiegare a chi non ha avuto l’occasione di vederli, la luce del sorriso sdentato della piccola Blessie, un anno compiuto proprio il giorno in cui è arrivata qualche anno fa al porto di Augusta con la sua famiglia partita dalla Nigeria e la sua energia instancabile, indirizzata alla scoperta di tutto ciò che la circondava dopo la fatica, i pericoli e le limitazioni del viaggio in mare? 


Come descrivere la forza e la carica umana dello scrittore di Damasco che, nonostante le evidenti bruciature di sigarette sul braccio, fratturato in modo scomposto, segni degli orrori del conflitto siriano e del passaggio dall'inferno libico, ha conservato la capacità di provare tenerezza, coprendo le spalle delle donne e dei bambini nelle lunghe notti sul barcone nel Mediterraneo? 


Come esprimere la vergogna e la rabbia per l’impotenza davanti allo sguardo rivolto a un altro luogo e a un altro tempo di una 15enne somala, chiusa in un suo mondo, che ha lasciato il suo Paese, dilaniato da anni di conflitti interni e da un’emergenza alimentare gravissima, piena di speranze e con la forza della sua giovinezza, cancellata per sempre in quei campi dell’orrore in Libia, dove ha conosciuto ogni giorno per mesi, più volte al giorno, la violenza di predatori senza umanità, accanitisi sul suo corpo di bambina? 


Come riportare la dolcezza di Mahmoud e Samia, due fratellini ghanesi, rimasti orfani e sbarcati da soli in Sicilia, tenendosi per mano, con il sogno di studiare e di vivere quell’infanzia negata, che ha costretto un ragazzino di 13 anni ad assumersi le responsabilità di un adulto nei confronti dell’adorata sorellina di appena 6? 


Cosa dire degli ultimi arrivati eritrei, tra cui tre donne con figli piccoli, due al di sotto di 2 anni e uno di 5 e 29 minori non accompagnati tra i 14 e i 17 anni, rimasti in Libia da uno a 2 anni, dove hanno visto morire soprattutto bambini sotto i 13 anni? Dove una partoriente portata in ospedale per complicazioni legate al parto, ha sentito che avevano intenzione di vendere il suo bambino ed è fuggita quindi una volta effettuato il cesareo? Dove i minori sono stati rinchiusi in capannoni o container anche 8 mesi/un anno, completamente al buio, al punto da avere problemi alla vista una volta tornati alla luce e dove hanno conosciuto ogni forma di violenza e tortura? 


Quali parole trovare dinanzi al ricordo di un 16 enne somalo, che a Lampedusa ripercorrendo le tappe del suo viaggio, ci ha detto “a Khartoum siamo saliti tutti su un fuoristrada, direzione Tripoli, eravamo 30 persone circa, fra cui 7 donne, in sei giorni siamo arrivati nel deserto. Appena entrati i trafficanti hanno preso le donne e le hanno stuprate, fra loro ce n’era anche una incinta di 7 mesi. Noi abbiamo cercato di fermarli – ha sussurrato con lo sguardo rivolto verso il basso - ma ci hanno minacciato con le armi; la donna in gravidanza ritornata nel gruppo ha preso un foulard ed ha tentato di strangolarsi, per fortuna siamo intervenuti, l’abbiamo calmata dicendole che quello che era successo non era colpa sua, che era stata costretta e che doveva dimenticare”.


E poi nell’anniversario della morte del piccolo Aylan, mi viene in mente la storia speculare di un’altra piccola siriana. A morire, in quel caso, non è stata la bambina di 1 anno e 9 mesi, che è sopravvissuta a un naufragio, ma a perdere la vita sono stati i genitori e il fratellino di 10 anni mentre tentavano la traversata del Mediterraneo verso la Sicilia. La bambina, ribattezzata “Hayat”, vita in arabo, da un uomo siriano che era sulla stessa barca naufragata e che l’ha salvata, è stata trovata in acqua, che galleggiava col suo salvagente vicino a un pezzo di legno. 


È stata data in affido per tre mesi a una famiglia siciliana, ha festeggiato in Italia il suo secondo compleanno e la sua seconda nascita per poi andare a vivere con il nonno e la zia in Sudan.”

Blessie, Mamhmoud, Samia e tutti i bambini e i ragazzi che sono fuggiti da guerre, carestie e privazioni ce l’hanno fatta. Molti di loro hanno vissuto l’inferno: l’inferno della pioggia che non torna, l’inferno del deserto, l’inferno dei centri di detenzione, l’inferno del dolore che si prova vedendo morire un membro della propria famiglial’inferno della guerra, la stessa che non aveva ucciso il piccolo Aylan, morto poi in mare, perché non c’era nessuno quel giorno nelle acque turche per salvarlo.

Per loro continuiamo a lavorare, nei paesi di provenienza, di transito e in Italia, con l’unico scopo di restituire a bambini e ragazzi il futuro che gli spetta, che spetta ad ognuno di loro.