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I patti di comunità in risposta alla sfida delle nuove tecnologie

Due bambini di spalle seduti a una scrivania digitano uno su un tablet e uno su un pc.

La complessità del mondo in cui viviamo, così condizionato e dominato dal digitale, ci pone di fronte a sfide educative nuove, intriganti, ma anche preoccupanti.

Sentiamo sempre più parlare di 5G, di intelligenza artificiale, di algoritmi, termini con cui iniziamo a familiarizzare ma che ancora ci suonano un po’ distanti. Anche se è vero che, mai come in questi ultimi due anni, gli strumenti digitali ci hanno permesso di restare vicini, di tenere vive relazioni con persone che vivevano, lavoravano e studiavano lontano da noi: se non avessimo avuto questi “ponti”, la pandemia ci sarebbe risultata ancora più pesante. Ma è anche vero che non sempre e non dappertutto è stato così: l’iperconnessione ha evidenziato nuove patologie, nuove psicosi, nuove paure, nuove problematiche, soprattutto nei più giovani.

Il tema è sicuramente complesso e richiede profonde riflessioni: strumenti come la DAD non si improvvisano in poche settimane; ci vuole formazione, competenza, flessibilità, capacità di mettersi in gioco. Non si tratta semplicemente di trasferire la lezione in presenza dentro ad uno schermo, ma di immaginare nuove forme di didattica e di inclusione, utilizzando la tecnologia in modo creativo. Su questo c’è indubbiamente ancora molto cammino da fare. Ed è qui che il capitale umano, con tutto il suo potenziale, può ancora dire la sua.

Educare alle nuove tecnologie


Lo sviluppo tecnologico al quale stiamo assistendo e quello che verrà di qui in avanti è inarrestabile. Per questo è sempre più importante educarci e educare ad un uso corretto di questi strumenti e di questi ambienti. Imparare a starci in modo corretto, imparare ad usarli con consapevolezza, imparare ad autoregolarci nei tempi e nei modi. La parola d’ordine, dal punto di vista educativo, deve essere “accompagnarli”: accompagnare i nostri figli alla scoperta delle meraviglie messe a disposizione dal progresso, ad un uso sano, corretto e competente di questi strumenti.

E dall’altro lato, accompagnarci gli uni gli altri, non trovare soluzioni individuali a problemi collettivi, non isolarci nelle nostre strategie famigliari più o meno efficaci, ma condividerle con altri genitori e più in generale con tutta la rete educativa che abbiamo intorno. Andare verso le alleanze educative per costruire vere comunità educanti. 

Cosa sono e a che servono i patti di comunità

E infatti nel nostro Paese cominciano a fiorire qua e là i cosiddetti patti di comunità, veri e propri accordi formalizzati da un contratto (il “patto” per l’appunto) tra tutti gli adulti che a vario titolo partecipano alla vita educativa di una collettività (scuola, associazioni sportive, istituzioni civili e religiose, associazioni culturali).

Queste esperienze regolano la vita di una comunità in senso sinergico: possiamo inventarci mille progetti stupendi sull’uso delle tecnologie a scuola ma se poi non c’è una sponda dentro casa, il progetto perde la sua valenza. Possiamo strutturare regole precise dentro casa sull’utilizzo dei dispositivi digitali ma se poi non le condividiamo con altre famiglie restano sterili perché nel confronto tra pari rischiamo che i nostri figli subiscano l’influenza di chi quelle regole non le ha e non le condivide.

Ci sono, ad esempio, esperienze di patti in cui una comunità ha deciso di non dare uno smartphone ai bambini prima dei 12 anni: provate ad immaginare cosa può voler dire per un ragazzino di prima media non avere il telefono e non avere compagni di classe, di calcio, di danza, di catechismo...con il telefono. Significa eliminare alla radice il confronto tra pari, che spesso è fonte di frustrazione (“Perché lui/lei sì e io no?”), ma ancor di più permette ai ragazzi di sviluppare competenze relazionali e strategiche che altrimenti non svilupperebbero. Oggi, ad esempio, si dà per scontato che i compiti per casa si passino tramite smartphone, ma se lo smartphone non ci fosse più, ci potrebbe essere più attenzione ad annotarli sul diario e comunque si limiterebbe (per non dire eliminerebbe) una fonte di distrazione continua.

È evidente che simili percorsi siano attivabili più facilmente in territori piccoli, ma nulla vieta di partire anche dal proprio condominio, coinvolgendo le famiglie dei bambini che ci abitano, per poi allargarsi a quello di fronte ed estendersi all’intero quartiere. Si tratta di avviare processi virtuosi, che, una volta preso il via, si perpetuano da soli. Ci vuole indubbiamente coraggio, voglia di andare contro corrente, perseveranza e spirito di squadra, ma è sempre “meglio avere la certezza di aver fatto poca strada insieme che l'illusione di averne fatta tanta da soli” (P. Pancrazio Gaudioso).

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