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Inclusione: partire da radici diverse per incontrarsi su uno stesso treno in partenza

Da nord a sud, il programma Fuoriclasse contrasta la dispersione scolastica promuovendo l’inclusione, con un’attenzione particolare ai minori di origine straniera e alle loro famiglie. In occasione della giornata del dialogo interculturale, pubblichiamo la testimonianza della nostra educatrice Paola Emeriglio, che ha accompagnato alcuni studenti neo-arrivati nell’apprendimento della lingua italiana.

Dieci paia di occhi e alcuni sorrisi si sono incontrati per migliorare il loro italiano. Cina, Nigeria, Congo, Filippine, Bolivia, Romania … siamo partiti dal luogo dell’origine, abbiamo imparato a chiamarci per nome e a sentire che i nomi hanno suoni diversi, a individuare nella provenienza il punto fermo, solido, profondo di una – pur giovanissima – esistenza: le radici, fondanti cultura, tradizione e linguaggio.
 
Ciascuno ha messo in valigia un ricordo della terra di origine e, man mano che il “nostro” viaggio guadagnava tappe diverse di fiducia e consapevolezza, lo abbiamo potuto condividere. M. ha portato con sé le montagne; S. i raviolini ripieni di carne; J. una canzone che ascoltava spesso; G. il ritratto di sua madre.
 
Molte le differenze, numerose le lingue parlate. Ma in comune una città: Torino. Abbiamo radicato qui il “nostro” presente, alla scoperta dei luoghi amati, in cui i ragazzi si potessero sentire accolti e a casa. Qui i nostri fili si sono intrecciati in un groviglio complesso e colorato, ma con due note comuni: l’età e la presenza di una migrazione nel cuore. E mano a mano che imparavamo i punti cardinali e i nomi dei continenti e dei mari, ciascuno ricostruiva il proprio viaggio e l’arrivo in Piemonte.
 
Non ce ne accorgiamo, ma, dopo circa un mese di attività insieme, i nostri fili camminano, si intersecano, si riconoscono. Il dialogo è ora possibile. La conoscenza dell’italiano migliora e permette di veicolare, attraverso il racconto, emozioni ed esperienze che suscitano identificazioni.
 
L’Altro inizia a diventare il proprio nome, portatore sì d’una provenienza, d’una cultura e d’una lingua, ma anche individuo, unico e irripetibile, coi suoi segni distintivi che lo rendono perfettamente riconoscibile lungo i corridoi della scuola.
 
Gli occhi si spalancano quando parliamo di futuro, ultima tappa del nostro viaggio. Una tappa che mi stupisce perché antepone alla dimensione del sogno una concreta volontà di auto-realizzazione, quasi a riscattare un periodo di difficoltà che i ragazzi sanno ben individuare nel proprio presente, o forse a voler dire: “Io sarò importante. Io sarò qualcuno”.
 
Quel “qualcuno” nell’immaginario dei ragazzi è un medico, un cuoco, un meccanico, un ingegnere, un mediatore culturale. Passato, presente e futuro: un percorso linguistico ma anche educativo, formativo e interculturale. Uno spazio in cui la generazione di migranti chiamata “seconda” – come la lingua che deve imparare se vuol stare a galla – ha fatto esercizio di democrazia, ha sperimentato linguaggi diversi (si impara italiano anche giocando), ha scambiato opinioni, ha maturato competenze, ha scoperto che ci si può sentire vicini o lontani a prescindere dal luogo in cui si abita, ha spogliato lentamente e a fatica pregiudizi, come un girasole si apre fiducioso al sole nelle ore più calde.  
 
E così, come un girasole, ho visto, nel tempo, il capo chino di chi aveva paura e non voleva guardare, alzarsi, più fiero e fiducioso. L’ho visto, alla fine del “viaggio”, sedersi accanto all’Altro, sulla sedia che all’inizio restava vuota, a proteggere lo spazio di una distanza necessaria; l’ho sentito chiamarlo col suo nome e non col nome del suo Paese, usare le stesse matite e scambiarsi la gomma. L’ho visto partecipare alla scrittura dello stesso comune disegno. L’ho visto avere voglia, pur con timidezza, di condividere. Quasi stesse dicendo all’Altro: “Sbrigati! Il treno sta partendo. E noi ci saliremo insieme…”.