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Voci dal campo: l'abbraccio delle donne di Za'atari

In occasione della giornata dedicata alle donne, vogliamo riportare la testimonianza di Laura, che da molti anni lavora con noi, e che nel mese scorso ci ha riportato dalla Giordania un'intensa storia di resilienza femminile.

Mi sembra di aver da sempre pensato a “Siria e Giordania” come un tutt’uno. Come il titolo di una brochure di viaggio, come un gettonato itinerario turistico tra Damasco e Petra. Torno da un viaggio che parla di Siria e di Giordania, ma molto diverso da quello che anni fa avrei sognato di fare. Il mio telefono non è pieno di foto di siti archeologici romani ma di quelle del campo del campo profughi di Za’atari. Eppure si conferma un legame indissolubile tra i due paesi, perché la Giordania oggi accoglie centinaia di migliaia di siriani in fuga dalla guerra. Per dare una scala di questa migrazione, con una popolazione di 9 milioni di abitanti, si stima che oggi la Giordania sia “casa” per circa 1.5 milioni di rifugiati siriani. A circa 10 chilometri dal confine con la Siria sorge il campo profughi di Za’atari, con i suoi 80.000 abitanti – tipo Como o Lucca - il secondo più grande al mondo. Za’atari dista meno di un’ora di macchina da Amman, una strada ampia e polverosa che comincia tra le abitazioni non terminate nelle periferie della capitale, per srotolarsi dritta in un paesaggio roccioso e semi-desertico tristemente costellato di rifiuti plastica.

Sono andata a Za’atari per accompagnare una delegazione dell’azienda Bulgari, dal 2009 al fianco di Save the Children. Siamo andati per capire la situazione e per vedere l’impatto dei progetti Save the Children finanziati dall’azienda. Per incontrare i beneficiari e le loro famiglie. Per vedere con i nostri occhi, per ascoltare con le nostre orecchie. Il campo di Za’atari, con i suoi 24,000 prefabbricati bianchi, si estende su una superficie di poco più di 5km quadrati. Ogni famiglia ha ampliato il suo prefabbricato costruendo una seconda stanza in lamiera metallica. L’impatto generale è una bidonville monocroma circondata dal filo spinato. Il governo Giordano garantisce la scuola primaria all’interno del campo – come nel resto del territorio nazionale - ma per i più piccoli non è prevista educazione pre-scolare. Per questo dal 2012 Save the Children, grazie al finanziamento di Bulgari, ha aperto 3 strutture per accogliere i più piccoli. La prima tappa del nostro viaggio è proprio la scuola materna “Rainbow”, arcobaleno, frequentato da bambini di 3-4 anni. Da diverso tempo il campo di Za’atari ha raggiunto la sua massima capacità e – fondamentalmente – a Za’atari non si entra e da Za’atari non si esce più.

Questo significa che tutti i bambini che vediamo nell’asilo - intenti a colorare con le dita, incollare fiori di carta, ascoltare la storia dei tre porcellini, andare in triciclo in cortile, abbinare numeri e lettere – tutti quei bambini altro non hanno visto che il campo profughi di Za’atari. Non un prato di margherite, non uno stagno con le rane, non albero da frutto. Il filo spinato di recinzione come orizzonte del mondo. Di contrasto con l’aspetto polveroso e desolato del campo, gli asili sono un’oasi accogliente e colorata. Come normale, i bambini sono un po’ intimiditi dalla nostra presenza, ma mi colpisce sentirli visibilmente felici di essere in quello spazio dedicato a loro, tutti presi da una routine animata di giochi e di stimoli. Alcuni, più intraprendenti, si avvicinano a noi per farci vedere un disegno o – semplicemente – per cercare un contatto e un sorriso.

Ogni settimana a Za’atari nascono 80 bambini e la gran parte dei genitori sono giovani e inesperti. Da anni vivono sospesi in una realtà senza uscita, senza speranza di ritorno in Siria, ma ugualmente senza speranza di poter migrare altrove. Per questo gli asili, in parallelo alle attività per i bambini, offrono importanti opportunità di informazione e ascolto proprio per i genitori. Durante la nostra visita all’asilo “Rainbow” abbiamo partecipato ad un incontro di mamme, saranno state quasi una ventina sedute in cerchio. Quando siamo arrivati parlavano di otite e poi di tanti altri argomenti della quotidianità. Con la moderazione di un’operatrice di Save the Children chiedevano consigli e condividevano esperienze. Siamo rimasti in un angolo ad ascoltare. Non era necessario capire la lingua per rendersi conto della grinta e della forza di quelle donne.

Della voglia di esprimersi, di partecipare, di condividere, di imparare. Del bisogno vitale di ridere e di piangere insieme. Tante volte ho letto la definizione di “resilienza” quale “capacità di far fronte in maniera positiva ad eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita senza alienare la propria identità”. Mai come di fronte al piglio e alla risolutezza quelle donne ho capito quale sia la forza della resilienza e quanto prezioso fosse per quelle mamme avere un luogo in cui poterla coltivare. L’ultima tappa della nostra giornata è stata la visita ad una famiglia. Quando accompagno i nostri donatori sul campo chiedo sempre di poter entrare in una casa perché credo che non ci sia modo di capire davvero l’importanza dei nostri interventi senza calarsi nel contesto in cui vivono i beneficiari dei nostri progetti. Lasciate fuori le scarpe siamo così entrati in casa di Maysa, mamma di 4 figli, tutti sotto i 10 anni. Il container era molto modesto ma pulito e curato. Ci siamo accomodati sui materassi per terra nell’unica stanza - soggiorno/camera da letto - ed abbiamo iniziato ad ascoltare. Maysa è una donna giovane dai modi gentili ma determinati. In Siria vivevano in una zona rurale del sud, non distante dal confine con la Giordania. Cinque anni fa lasciarono la loro casa per paura di un focolaio di violenza nella regione.

Scapparono in fretta e furia senza prendere niente, convinti di allontanarsi solo per qualche giorno. Da allora non sono più tornati. Il bel volto ovale di Maysa è incorniciato da un velo a fiori. Non piange, ma continua a parlare. Lo sguardo intenso e intelligente. Quando sono arrivati a Za’atari avevano 2 figli piccoli, la bambina di un anno e mezzo – Roa’a - con un grave ritardo mentale. Nel frattempo sono nati altri due bambini e Roa’a che oggi ha 7 anni, purtroppo non può andare a scuola perché non è in grado di camminare né di seguire le lezioni con gli altri bambini della sua età.

Save the Children ha conosciuto la famiglia di Maysa quando i bambini più piccoli sono andati all’asilo e in quell’occasione i nostri operatori hanno proposto che anche Roa’a partecipasse alle lezioni. Maysa ci ha raccontato quanto Roa’a abbia beneficiato dello stimolo di stare insieme ad altri bambini, quanto essere sollecitata positivamente le consenta di fare piccoli progressi. Abbiamo ascoltato in silenzio, commossi dalla sua storia e ammirati dalla sua forza. Ci siamo guardati negli occhi. Abbiamo fatto qualche domanda. Le abbiamo spiegato di essere venuti a Za’atari perché ci stava a cuore la situazione dei rifugiati siriani. Le abbiamo detto che la ammiravamo. Che la ringraziavamo per la sua ospitalità.

Quando è stato il momento di andarsene mi sono avvicinata a Maysa per stringerle la mano. Avrei tanto voluto abbracciarla, ma non ero sicura fosse un gesto opportuno. A quel punto è successo che Maysa ha abbracciato me, fortissimo. E in quel lungo abbraccio siamo tutte e due scoppiate in un pianto irrefrenabile. Abbiamo singhiozzato insieme, io nelle sue braccia e lei nelle mie. Non so che nome dare all’intensità di quel momento così istintivamente carico di sofferenza e solidarietà. Di dolore e amore. Di dare e ricevere. Di intima comprensione. In volo verso l’Europa per la prima volta in vita mia penso che fortuna poter “tornare a casa”.

Non dimenticherò mai il mio viaggio a Za’atari. La resilienza delle donne. L’abbraccio con Maysa. E i 4000 bambini che – ogni anno – possono evadere dai confini della loro quotidianità grazie ai colori degli asili di Save the Children finanziati da Bulgari.